Continua il calo dei piccoli negozi. Ascom dà la colpa alle grandi strutture di vendita ed invoca a Padova una inversione di tendenza

 

L’allarme è dell’Ispra ed è stato ripreso, nei giorni scorsi, dal quotidiano economico Italia Oggi: il consumo di suolo, nel nostro Paese, avanza al ritmo di 70 ettari al giorno. Da noi, in Veneto, una recente legge regionale sta cercando di mettere dei paletti ma tra concessioni date e non più revocabili, aree di completamento e insediamenti nuovi, sarà difficile, nell’immediato, cercare di stoppare un fenomeno che può essere ricondotto, in buona misura, alla realizzazione di ipermercati e centri commerciali.
Un fenomeno che, nell’arco di meno di un ventennio ha modificato radicalmente le abitudini di consumo degli italiani con una conseguenza di non poco conto: ha desertificato i centri dei piccoli paesi e ha trasformato le periferie delle città.

Qualche numero può dare l’idea di cosa sia successo: alla fine del 2000, in Italia (dato dell’Osservatorio nazionale del commercio del Ministero dello Sviluppo Economico) i negozi erano 858.027. Al 31 dicembre 2017 questi si erano ridotti a 742.881.
“Si tratta di una vera e propria emorragia – commenta Patrizio Bertin, presidente dell’Ascom Confcommercio di Padova, in assoluto una delle associazioni di categoria che più si batte contro la desertificazione dei centri cittadini ed il consumo di suolo – e che, in termini percentuali, vale un drammatico 13,4%. A Padova, in un arco di tempo più contenuto (vale a dire dal 2009 al 2017) siamo passati dai 13.989 esercizi commerciali al minuto del 2009 ai 13.304 di fine 2017. Si tratta di un significativo 4,9% (685 esercizi in termini assoluti seppur con variazioni in più e in meno nel corso degli anni) senz’altro rapportabile al dato nazionale su base quasi ventennale e che va ascritto a scelte politiche di cui oggi scontiamo tutti gli effetti negativi”.
Bertin ripercorre a ritroso una “via crucis” dove il commercio al minuto è caduto più di una volta.
“Il primo colpo mortale – ricorda il presidente dell’Ascom Confcommercio padovana – risale al 1998, quando la riforma della disciplina relativa al settore del commercio ha liberalizzato i cosiddetti esercizi di vicinato, ovvero i negozi con superficie inferiore a 250 mq, aprendo contemporaneamente la strada allo sviluppo delle medie e grandi strutture di vendita che, fino a quel momento, era stata fortemente osteggiata”.
Chi ha i capelli un po’ più brizzolati ricorderà che, prima della liberalizzazione, le autorizzazioni venivano rilasciate per tabella: alimentari, carne, pesce, abbigliamento, calzature, mobili e via dicendo. Dal 1998 in poi, invece, i settori si sono ridotti a due: alimentari e non alimentari.
“E’ di quegli anni – continua Bertin – il “leit motiv”, poi divenuto “mantra”, che le liberalizzazioni avrebbero avuto solo effetti positivi sulla concorrenza e, in ultima analisi, sui portafogli dei consumatori ma già all’indomani della riforma, l’ufficio studi di Confcommercio denunciò che la trasformazione della rete distributiva non sarebbe stata né “neutra” né “indolore” e avrebbe portato alla messa fuori mercato di numerose imprese con conseguenze importanti sull’occupazione e sull’assetto sociale dei nostri centri abitati”.
Non era comunque ancora finita, anzi. Il colpo di grazia ad un sistema già ampiamente sbilanciato, arriverà nel 2011 col decreto Monti (“il famigerato decreto Monti” come sottolinea Bertin) che, abolendo orari e giorni di chiusura, favorirà i grossi gruppi e i centri commerciali dal momento che l’apertura generalizzata e continuativa, sette giorni su sette, metterà il piccolo dettagliante di fronte ad un vero e proprio dilemma: tenere aperto per contrastare i colossi o mantenere le proprie abitudini vedendosi sottrarre, giorno dopo giorno, la clientela?
“Per questo – aggiunge il presidente dell’Ascom di Padova – stiamo attendendo con favore l’iniziativa del governo (e, su scala regionale, la pari iniziativa dell’assessore regionale Roberto Marcato) per arrivare ad un piano delle aperture domenicali e festive che preveda un numero accettabile di dodici festività lavorative annue per singolo esercizio commerciale”.
Basterà per riequilibrare il rapporto commercio di vicinato/grandi strutture di vendita?
“Nessuno si nasconde – conclude Bertin – che l’e-commerce abbia fatto il suo ingresso prepotente nello scenario. Però questo dovrebbe far riflettere più sull’inutilità di aprire nuovi grandi centri commerciali piuttosto che nel paventare la fine del piccolo commercio. E’ lampante che un centro commerciale grande (come poteva essere quello di Due Carrare, da noi osteggiato con ogni mezzo) fa chiudere quelli un po’ più piccoli. A Milano lo stanno sperimentando e ad Occhiobello l’outlet che sembrava destinato a chissà quali risultati, giace sullo sponde del Po in una crisi che, ai più, sembra irreversibile. Nel frattempo, però, si sono cementificati ettari di territorio e di questo, prima o poi, la natura ci chiederà il conto”.