Il Vescovo Mattiazzo parla ai fedeli in occasione della festività di Tutti i morti

 

Desidero cogliere l’opportunità delle festività di tutti i santi e dei defunti per proporre una meditazione su un tema spesso emarginato o pensato in modo confuso, ma che, invece, riveste somma importanza. Si tratta del senso e del fine ultimo della nostra vita e, insieme, della storia e del mondo.
Il Papa Benedetto XVI ci ha riproposto questo tema con una riflessione biblica e teologica di grande profondità nell’Enciclica Spe salvi (30 nov. 2007); ma come oggi avviene, non di rado gli eventi e i documenti importanti si susseguono ad un ritmo talmente veloce che rischiano di rimanere a livello di semplice informazione, senza essere assimilati. Vorrei invitarvi a riprenderla e meditarla. Anche perché – come rileva il Papa – «l’attuale crisi di fede, nel concreto, è soprattutto una crisi di speranza cristiana» (Spe salvi, n.17).
La recente pubblicazione dell’Enciclica Caritas in veritate, che tratta un problema di grandissima attualità, com’è la crisi economico-finanziaria, non dev’essere considerata in posizione dialettica rispetto alla prima. Non si tratta di separare la Terra dal cielo, ma di unirli. Chi ha voluto risolvere i problemi della Terra, escludendo il cielo, li ha peggiorati.

1. Risvegliare il senso dell’eterno

Il pensiero del fine ultimo e della speranza ha una sua logica ed esigenza interna. Infatti, noi non ci limitiamo solo a ricordare il passato e a vivere il presente; ci poniamo domande anche sul futuro, e al futuro è legata la nostra felicità piena e duratura. A volte, avvertiamo la precarietà dell’esistenza che ci sfugge, lo scorrere del tempo che inesorabilmente ci scivola via. Si è presi allora dall’angoscia, che è come la sensazione di essere assorbiti da un mondo di vanità e di morte. Questa consapevolezza apre la via alla “trascendenza” della nostra persona rispetto al mondo contingente e questa intuizione approda al senso dell’Eterno, che è anche la Sorgente della nostra vita e della nostra dignità.

Altre volte, è soprattutto la morte di persone a noi care a risvegliare il pensiero del futuro. In fondo, a ben riflettere, il futuro conta più del passato e del presente, perché dopo che abbiamo cominciato a vivere, la cosa di gran lunga più importante è come andrà a finire. E se manca speranza, allora anche il presente diventa opaco. Gli scienziati pensano che l’evoluzione arrivi all’homo sapiens e non vada oltre. È una visione monca e triste, perché il fine sarebbe la morte. Noi pensiamo, invece, che arrivi all’Uomo nuovo e si prolunghi oltre la morte.

La fede cristiana propone la “vita eterna”. Non è un’idea eterogenea. In noi c’è l’istinto della vita e un’aspirazione alla “vita eterna”; vorremmo vivere per sempre. La morte non è così “naturale” come si dice. Se così fosse non ci farebbe paura, non la sentiremmo come uno strappo violento. Noi ci rattristiamo e piangiamo quando la morte ci strappa i nostri cari e ci domandiamo perché.

Di fronte alla morte si elaborano vari atteggiamenti. Alcuni cercano di esorcizzarla, evitando di pensarvi, immergendosi totalmente nel presente; altri ritengono genericamente che esista un “aldilà”, lasciando nel vago il suo contenuto. Da qualche tempo la festa dei Santi viene sostituita da Halloween, e il potere economico ha subito fiutato l’affare, facendone pubblicità. Un misero surrogato della speranza!

Penso che la comunità cristiana, in particolare preti, catechisti, educatori, debbano oggi riflettere seriamente su una verità di fede essenziale, ma divenuta per molti oscura e fuori dell’orizzonte di senso della vita. Anche perché, eclissata la fede nella vita eterna, viene meno anche la speranza cristiana e, di fronte all’esperienza del male, del dolore e delle tribolazioni della vita, si cade nella tristezza, nella depressione, se non nella disperazione e, Dio non voglia, nella tentazione del suicidio. Dovremmo rivolgerci a Dio pregando: «vedi se percorro una via di dolore e guidami per una via di eternità» (Sal 139).

2. Rigenerati per una speranza viva

La rivelazione biblica ci propone il fondamento, il contenuto e la forma della vita eterna. Il fondamento sicuro è Gesù Cristo che, avendo assunto la nostra condizione mortale, ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’immortalità. Cristo è Alfa e Omega, Principio e Fine. (cf Ap 22, 13). La Pasqua di Cristo è il fondamento e la sorgente sempre viva e attuale del nostro credere e del nostro sperare. La domenica – Giorno del Signore – ci dona e ci immerge nel dinamismo della Pasqua. È di somma importanza che celebriamo la Domenica, è una ricarica di speranza! L’eclissi della domenica è un impoverimento della speranza.

La vita eterna non riguarda solo l’anima come pensava la filosofia platonica. Nella vita eterna entra la persona nell’integralità di anima e corpo, con un “corpo spirituale” (cf 1 Cor 15, 44 ss), com’è avvenuto con Gesù e Maria assunta in anima e corpo al cielo. La vita eterna secondo la fede cristiana non è semplicemente un “Nirvana”. È il compimento finale della salvezza per la persona, la Chiesa e il cosmo. Nella vita eterna giunge a perfetto compimento la storia di amore che ha portato Dio a incarnarsi, ad assumere la natura umana per liberare dal male e farlo figlio di Dio. È la comunione definitiva e beatificante con Dio quale pienezza e perfezione delle più profonde aspirazioni del cuore umano. La vita eterna è il perfetto compimento del Regno di Dio che è giustizia, pace, gioia. San Paolo così descrive il compimento finale, parlando della Risurrezione di Cristo e «di quelli che sono di Cristo»: «Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però, quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15, 24-28). Dio, che è Amore infinito e infinita Beatitudine, penetra tutto in tutti: è questa la vita eterna. Possiamo esplicitare: Dio è il Paradiso per chi è ammesso nel suo regno; il giudizio per chi è da Lui esaminato; il Purgatorio per chi è da Lui purificato; l’Inferno l’esserne privato.

La persona umana non è fatta per vivere ed essere felice da sola, ma nella comunione. Perciò, la vita eterna è una giuliva riunione di festa nell’amore, nella pace e nella gioia. Per dirci questo la Bibbia ricorre all’immagine del Banchetto nuziale (cf Ap 19, 9.18). E poiché la persona è dotata di corpo “spirituale”, si vivrà in un cosmo nuovo; «e vidi un cielo nuovo e una terra nuova» (Ap 21, 1) e una città nuova simboleggiata dalla Gerusalemme celeste: «e vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate”» (Ap 21, 2-4). Quando mi rendo conto che pensiamo poco e non desideriamo la vita eterna, mi viene alla mente l’esperienza della nascita del bambino. Quando viene alla luce, egli piange. Perché? Perché prima stava a suo agio nel tepore del seno materno, nutrito e protetto. Quando nasce è proiettato fuori dal suo ambiente piacevole e ne sente dolore. Poi si adatta a questo mondo, e pure incontrando sofferenze e vedendo tanti mali, vorrebbe starci sempre. Si avvicina la morte, che è il “dies natalis”, cioè il giorno della nascita al “mondo della perfezione e della beatitudine eterna”, e invece noi… ci turbiamo. Siamo davvero gente di poca fede!

3. Verrà nella gloria per giudicare

È logico che nella “vita eterna” entri solo la vita perfetta. Una vita eterna in cui vi fossero ancora il male, l’egoismo, l’orgoglio, la violenza, sarebbe piuttosto una disgrazia. Ma chi può giudicare la nostra vita e ammettere all’eternità felice?

È chiaro che solo Dio può farlo. Gesù nell’Evangelo parla chiaramente del giudizio di Dio. È questa una realtà grave e da prendere molto sul serio, anche se richiede di essere presentata con accuratezza per non dar luogo a malintesi, come a volte è avvenuto. Non possiamo smettere di proclamarla per accomodarci ad un diffuso sentire che finisce per sottrarci alla nostra responsabilità. Chi prende sul serio la libertà, prende sul serio anche le proprie responsabilità, in coscienza davanti a Dio. La morte è il momento della verità e la caduta delle maschere ed etichette. Il giudizio di Dio sarà la luce che svelerà il nostro vero valore, la verità di quanto abbiamo compiuto, nel bene e nel male, durante l’arco della nostra vita. È l’incontro con Cristo a costituire l’atto decisivo del giudizio. Cristo sarà allora come fiamma di luce e di fuoco, che svelerà e fonderà ogni falsità e malizia, e farà risplendere il vero bene. «Col fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno» (1 Cor 3, 13). Quanto è importante che già in questa vita, abbiamo a incontrare senza timore il fuoco dell’amore misericordioso di Gesù che ci purifica dalle scorie, lasciando risplendere solo l’oro delle opere buone! Facciamolo nel Sacramento della Penitenza.

Il giudizio di Dio riguarderà in particolare – come ha detto Gesù (cf Mt 25, 34-46) – le opere di amore che abbiamo compiuto verso il prossimo; non tanto le belle parole, i bei sentimenti, ma le opere. Il giudizio di Dio non riguarda solo la singola persona; esso sarà la risposta di Dio all’attesa e alle esigenze di verità e di giustizia dell’umanità intera. Nel corso della storia infatti è accaduto che chi ha operato il male abbia ottenuto successo, e chi ha operato il bene e persino sacrificato la vita per il bene, sia risultato perdente. Dio darà allora risposta ai tanti perché e alle tante sofferenze qui patite ingiustamente.

4. Attesa riempita di opere buone

Siamo, dunque, richiamati, a pensare e valutare la nostra vita presente, il nostro stile di vita nella prospettiva della vita eterna. Quando celebriamo Cristo presente nell’Eucaristia siamo richiamati a vivere «nell’attesa della Sua venuta». Noi tendiamo a diventare ciò che attendiamo. Altra cosa è attendere solo la morte, altra è attendere il Signore Risorto. Il tempo dell’attesa non è il vuoto; tutt’altro. La nostra dev’essere un’attesa non passiva, ma attiva, riempiendo il tempo che passa di opere buone come semi di eternità, soprattutto opere di carità e di misericordia, che ci accompagnino nell’eternità; ed evitando il male, che sarà bruciato come paglia e zizzania (cf Mt 13, 30).

Abbiamo solo questa vita e questo tempo. La reincarnazione è un’illusione che, tra l’altro, ignora o non crede nella grazia della redenzione di Cristo.

È necessario che prendiamo sul serio la Parola di Dio che ci invita ad essere vigilanti e dinamici nel compiere il bene. Spesso, invece, siamo distratti, superficiali, pigri e pusillanimi. Se non si riflette seriamente sull’esito finale della nostra esistenza e sulla vita eterna si rischia di banalizzare il senso della vita e della morte e di pregiudicare la nostra felicità. Il Signore ci invita ad essere svegli, ammonendoci: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Lc 12, 35-40).

Avere una vigile e responsabile attenzione alle scelte della vita presente che hanno sicure conseguenze per la vita eterna è proprio di persone sagge.

Gesù ha pronunciato una parola che ci deve far seriamente riflettere: «quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?» (Lc 9, 25). Il Signore ritiene stolto chi pensa solo ad accumulare beni materiali senza pensare all’eternità e al giudizio di Dio (cf Lc 12, 16-21).

Dovrebbe impressionarci la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cf Lc 16, 19-31); il primo gozzoviglia e non dà neppure le briciole al povero Lazzaro. Nell’eternità la loro sorte è capovolta. Ricordiamo che Paolo VI nell’Enciclica Popolorum progressio ci ha fatto riflettere che oggi il povero Lazzaro è costituito da popoli interi.

Dobbiamo riflettere che il rimandare la nostra conversione ci mette in un grave rischio.

Dio è paziente e ci offre ripetute occasioni per convertirci. San Pietro scrive: «Il Signore non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi». (2 Pt 3, 9). Ma, se nonostante tutta la pazienza di Dio a nostro riguardo, non produciamo frutto, ad un certo punto perdiamo la grazia della conversione (Lc 13, 6-9). L’attesa, dunque, dell’eternità e del compimento perfetto del Regno di Dio è autentica quando non indebolisce, ma piuttosto stimola il nostro impegno a compiere generosamente i nostri doveri verso Dio e verso il prossimo. Nel tendere alla vita eterna, noi certamente incontriamo difficoltà e prove di vario genere. Ma abbiamo sempre un sicuro aiuto a cui ricorrere con la preghiera, certi che il Signore ci infonderà luce e coraggio. Egli, infatti, «proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2, 18).

5. Annunciare e testimoniare la vita eterna

È necessario e urgente che la fede nella risurrezione e nella vita eterna sia annunciata in modo appropriato, tenendo conto della situazione culturale odierna. È questa fede che fonda la beata speranza. Ne abbiamo i mezzi a disposizione: l’annuncio della Parola di Dio e la catechesi, la celebrazione eucaristica soprattutto nel Giorno del Signore, la pastorale dei malati, il sacramento dell’Unzione dei malati. Un momento di particolare importanza per annunciare la fede nella vita eterna e la beata speranza sono le Esequie.

Esorto i presbiteri e gli animatori liturgici a curare la celebrazione dei funerali in modo che al centro vi sia la Parola di Dio e il mistero pasquale di Cristo, vegliando per non introdurvi elementi estranei o che possono trovare posto in altri momenti. I discorsi e i sentimenti individuali, possono essere apprezzabili, ma quanto gioveranno al defunto? Quello che conta davvero è la fede e la preghiera della Chiesa madre – rappresentata dalla Comunità che celebra le esequie – che ha generato il defunto alla vita di figlio di Dio, lo ha nutrito di Cristo Parola e Pane di vita eterna, e ora lo consegna a Dio Padre con gratitudine per il bene che ha compiuto, chiedendo misericordia per il male che ha fatto, e così lo genera alla vita eterna. Quello che più importa e giova è perciò partecipare attivamente con il cuore alla preghiera liturgica.

È divenuto di somma importanza, nella nostra cultura secolarizzata, testimoniare la nostra fede e dare ragione della speranza che è in noi (cf 1 Pt 3, 15), perché le speranze che questa cultura propone sono molto, o troppo “corte”. Vi sono sofferenze così profonde e lancinanti che nessuna parola umana è in grado di lenire. Il nostro tempo ci richiede ancor più di offrire valide ragioni di speranza saldamente fondate su Gesù Cristo e soprattutto reclama Testimoni della stupenda speranza cristiana. Siamo così rimandati alla nostra identità cristiana: siamo davvero quello che professiamo della nostra speranza?

La vita dei monaci, degli eremiti, di religiosi e religiose, è per se stessa una viva testimonianza della vita eterna che dovrebbe risplendere ed essere messa in luce. Mi fa sempre impressione leggere sul muro della Chiesa degli eremiti camaldolesi sul monte Rua «Expectantes diem, qui nescit occasum». La loro vita non è una fuga dal mondo; ma un anticipare il mondo nuovo senza tramonto nell’impegno della vita presente. Dai monaci prendiamo e facciamo nostro il motto: «Ora, labora, noli contristari» (prega, lavora, non cedere alla tristezza).

Anche i sacerdoti che hanno scelto il celibato testimoniano ugualmente che la sessualità nell’attuale forma corporea, e il matrimonio, pur di così alto valore, appartengono pur sempre all’ordine di questo mondo, relativo e provvisorio, destinato alla morte, e indicano il mondo futuro e definitivo (cf Mt 22, 23-30; IGv 7, 29-31). Quello che non muore e rimane in eterno è la carità.

6.               Vieni Signore Gesù

Nel Nuovo Testamento, è conservata forse la più antica invocazione liturgica: «Signore nostro, vieni» (1 Cor 16, 22; Ap 22, 20; cf Didachè 10, 6). È interessante che l’invocazione è riportata nella lingua aramaica: Maranà thà, probabilmente proclamata dai primi cristiani della comunità-madre di Gerusalemme che erano stati testimoni di Gesù Risorto. L’invocazione, pronunciata nella celebrazione eucaristica che rende presente il Signore Gesù, pur velato sotto le specie eucaristiche, esprime il desiderio della sua venuta definitiva. In questo modo la celebrazione eucaristica è come il banchetto che anticipa e fa pregustare il banchetto definitivo. La presenza di Cristo e la sua venuta, gloriosa e beatificante sono così poste in tensione. È attesa del compimento finale a partire da un presente già donato. Il nostro sguardo di fede si dovrebbe aprire alla contemplazione della Chiesa giunta alla gloria associata alla nostra Liturgia terrena. Nella lode a Dio, infatti, siamo uniti «agli angeli e agli arcangeli, e a tutti i santi del cielo» nel canto gioioso dell’inno di gloria.

È importante che abbiamo a vivere e proporre il senso escatologico espresso nei vari momenti della celebrazione eucaristica.

La Bibbia che inizia con il libro della Genesi, si conclude con l’Apocalisse. In mezzo, tra la creazione del mondo e la sua fine, c’è il grandioso e drammatico affresco della storia dell’umanità. La conclusione di tutta la storia è un’invocazione appassionante che sgorga dallo Spirito e dalla Sposa di Cristo, la Chiesa pellegrina nel mondo: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. E chi ascolta, ripeta: “Vieni!”. “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù» (Ap 22, 17.20).

Vieni, Signore Gesù. Vieni presto, porta a compimento la tua creazione lacerata dall’odio, dall’egoismo e dalla violenza; fanne il giardino di una nuova creazione dove gli eletti danzino di gioia nell’armonia e nella pace.

Vieni, Signore Gesù, trasforma le lacrime di chi ha seminato nel pianto, in splendide gemme.

Vieni, Signore Gesù, fa entrare nella tua gioia infinita chi ti ha seguito e servito fino a sacrificare la vita per Te e per i fratelli.

Vieni, Signore Gesù, colma dei beni eterni i poveri, i miti, gli umili, i perdenti di questo mondo.

«Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il Padre mio sul suo trono» (Ap 3, 20-21).