Il vero disobbediente sono io, che sono andato a lavorare

 

Io oggi non ero in piazza. Ero a lavorare. E mi sento parecchio più disobbediente di quelli ufficiali, i disobbedienti che dopo un paio d’anni di letargo sono ritornati a far parlare di sè nell’unica maniera che gli riesce: la violenza. Una violenza rituale, protocollata dai vecchi autonomi che evidentemente non trovano un hobby migliore che quello di filiare ideologicamente altri loro cloni che danno una mano alle loro ugole ormai rinsecchite dall’età e dalle sigarette ad urlare sempre i soliti slogan. Sempre i soliti no. Per fortuna a giudicare dalle foto del piazzale della stazione, sono sempre di meno. Anche se sui giornali di domani sembrerà che siano stati centinaia, migliaia, immortalati in decine di foto, protagonisti di decine di articoli. Che tristezza per questi miei coetanei e per quelli che hanno la stessa età dei miei nipoti, che emulano linguaggi, schemi mentali ed anche l’abbigliamento di quei gloriosi anni in cui l’immaginazione, raccontano i vecchi del Pedro a Padova come altri reduci dell’ideologia del nulla in tutta Italia, era al potere. Hanno manifestato nel ’68, spaccato vetrine e teste negli anni ’70. E poi magari a inizio anni ’80, quelli che non sono diventati azionisti della no global Spa, erano già in pensione con undici anni sei mesi e un giorno di contributi. Altri si sono imbucati in qualche pubblica amministrazione e da quelle cucce comode hanno creato Cobas ed associazioni di reclutamento di altri giovani parassiti, che si sono tolti il pensiero di un mutuo, magari occupando una casa pubblica e che hanno scelto di andare direttamente in pensione da giovani, evitando accuratamente di lavorare. Sono figli di una generazione che ha chiesto sempre di più, dopo aver chiesto tutto e subito, assieme a sindacati, ciechi dalla scala mobile in poi, di fronte al precipizio del debito pubblico in cui il Caf stava precipitando il Paese. L’Italia nel 1970 aveva un terzo del debito pubblico di adesso. Sarebbe bastato non mandare in pensione la gente a 50 anni, non assumere chiunque avesse una tessera di partito e magari selezionare un po’ di più chi studiava all’università per essere ancora un Paese in cui uno come me a 36 anni ha 5 figli come mio padre. E invece ne uno in arrivo, ed è il primo e rischia di essere l’ultimo perchè la generazione che mi ha preceduto mi sta scaricando addosso tutto il peso della spesa insostenibile spacciata per sviluppo: per questo oltre ad una montagna di gioia sotto sotto sento un po’ di paura. Perchè i figli del ’68 mi hanno lasciato sulle spalle un debito pubblico enorme e c’è ancora chi dà loro retta. Come i neofascisti che inneggiano al duce che ha mandato a morire milioni di italiani in Russia, questi miei coetanei inneggiano a chi ha fatto altrettante vittime con l’inno all’aborto, alla demolizione della famiglia, ad una politica che si è mangiata il futuro di una intera generazione, la mia, che come me vorrebbe avere una famiglia generosa e numerosa come quella dei propri genitori, e forse dovrà accontentarsi di mettere al mondo al massimo due figli. Perchè gli altri sarebbero troppo poveri per essere felici. Non c’è nessuna soluzione dietro quei caschi e quegli slogan. C’è solo la causa radicale della crisi che stiamo vivendo. La soluzione è nelle braccia e nella testa di chi oggi è andato a lavorare come ogni giorno.

 

Alberto Gottardo