Intellettuali che rischiano di fare il male di Padova, altro che Bitonci

 

Il ruolo dell’intellettuale è quello di leggere le cause dei fenomeni e di dire dove questi fenomeni portano, quali saranno o potrebbero esserne, le conseguenze. Insomma è una sorta di medico, che osserva il sintomo, ne individua la cusa e cerca di evitarne il decorso clinico infausto. A me, che sono molto distante dall’essere un intellettuale, pare che gli intellettuali che hanno firmato il manifesto degli intellettuali contro Bitonci clicca qui per leggere l’articolo del Mattino di Padova si siano fermati al sintomo, ma non abbiano saputo fare una diagnosi del malessere che ha scosso negli ultimi anni Padova.

In città c’è una febbre, quasi che l’arrivo di un numero non piccolo negli anni di stranieri (almeno 30/40mila) avesse causato una sorta di rigetto nel resto del corpo urbano. Bitonci in questo senso è stato scelto come una delle possibili “cure” da parte di quella fetta di padovani che vivono i nuovi cittadini come una “infezione” da sradicare dal tessuto cittadino. Ed allora arrivano gli antidoti della palestra concessa per le preghiere del Ramadan come fosse un orrendo sacrilegio, gli annunci sul crocifisso obbligatorio negli uffici pubblici, e via annunciando.

Chi dice che Bitonci non è il sindaco di tutti, che Padova è una città aperta dovrebbe cercare di evitare un radicalizzarsi dello scontro tra l’idea della città aperta e quella chiusa che rigetta gli stranieri perchè rubano, portano malattie incurabili tipo l’ebola, vivono parassitariamente alle spalle degli onesti cittadini e via propagandando.

Credo che meno intellettuali e più alfabetizzazione, verso entrambe le parti, potrebbe portare risultati migliori dei manifesti firmati da quelli che considerano barbari quelli che vivono male l’immigrazione. Ci sono due tipi di stranieri: quelli nati altrove e residenti a Padova e quelli residenti da sempre, che già avevano lottato per generazioni per affrancarsi dal monolinguismo dialettale, ed ora non hanno strumenti linguistici e culturali per interpretare una città in cui rischiano a loro volta di sentirsi stranieri ed emarginati. A rassicurarli basterebbe forse avere qualcuno che desse loro degli strumenti per non vedere per forza un cannibale stupratore in ogni nigeriano che incontrano per strada. Il rigetto non si cura nè con gli annunci nè con i rimproveri altezzosi e le campagne “tizio caio non è il mio sindaco”. Occorre rimuovere non già gli stranieri (termine che tende ad annacquarsi sempre di più dal momento che moltissimi di questi stranieri hanno figli che studiano con gli italiani doc), ma trovare dei faticosi punti di incontro, fatti di mediazione urbana nei condomini, di seminari rivolti agli italiani, utilizzando magari la rete delle parrocchie. Occorre insomma, a mio avviso, abbattere muri, e non segnare nuovi confini tra gli intellettuali cosmopoliti ed i barbari provinciali. Altrimenti le diffidenze diventeranno odio, e l’odio, come insegnano talune vicende d’oltralpe nelle banlieu, non porta lontano.

Alberto Gottardo