Da Chicago a Padova: un gemellaggio ideale tra due realtà carcerarie per imparare dalle buone pratiche in Italia e dagli errori Usa

 

Un ritorno sempre gradito nel carcere di Padova, nelle giornate di lunedì 2 e martedì 3 maggio, quello di Bruno Abate e Tim Dart. Il primo, già più volte presente nel nostro paese, è l’iniziatore dell’innovativa esperienza americana di Recipe for Change (una ricetta per cambiare), che coinvolge in corsi di cucina decine di detenuti. Dart, ex-magistrato, è un esperto di questioni penitenziarie e fratello dello sceriffo della Contea di Cook, ovvero della persona che è a capo dell’intera amministrazione della giustizia sul territorio chicagoano, carceri comprese.

L’amicizia tra Recipe for Change e Officina Giotto, il consorzio che gestisce le lavorazioni della casa di reclusione di Padova, è ormai consolidata. Tutto cominciò quattro anni fa, quando Bruno rimase sconvolto vedendo per caso mentre faceva zapping un servizio televisivo sui minori detenuti negli Stati Uniti e, poco dopo, scoprendo sempre attraverso un video l’esperienza del carcere di Padova. Fu così che Abate decise di dare il via alla sua iniziativa di recupero dei detenuti attraverso l’insegnamento della grande cucina italiana. E se durante il giorno gestisce il ristorante “Tocco” di Chicago, forse il più noto locale italiano della città con clienti quali Clint Eastwood e Mariah Carey, in parallelo nel carcere della Contea di Cook (il più grande degli Usa con punte di 12mila reclusi) ora ha anche aperto una pizzeria che è l’unica in un penitenziario statunitense.

Dopo aver visitato le lavorazioni attivate in carcere dal consorzio – dalla celebre pasticceria che ogni anno spedisce a Chicago centinaia di panettoni, ai call center, alla costruzione di biciclette e valige – Bruno e Tim hanno incontrato una cinquantina di detenuti assunti alle dipendenze del consorzio con i quali hanno dialogato per un’ora.

Un quadro drammatico, quello tracciato dai due ospiti ai detenuti padovani. Il sistema penitenziario negli Usa è in profonda crisi, oberato da costi insostenibili. «I detenuti superano i due milioni e mezzo di unità», hanno raccontato, «ovvero cinquanta volte la popolazione carceraria italiana, quando il rapporto tra la popolazione civile dei due paesi è di cinque a uno». Per capirsi, come se il nostro Paese avesse 5-600mila detenuti.

Non sono solo i numeri a preoccupare ma la tipologia della popolazione. «Gran parte dei detenuti è affetta da patologie psichiche, molte delle quali insorgono durante e a causa della detenzione. Una volta che una persona entra nel sistema del carcere è difficilissimo che ne esca, perché il reinserimento è di fatto impossibile. E i penitenziari hanno una qualità della vita infima, a partire dal cibo per il quale si spendono 2,7 dollari a testa al giorno comprensivi di colazione, pranzo e cena».

A volte qualcuno nel nostro paese, anche sulle testate stampa e tv, cita il sistema americano come esempio di reinserimento dei detenuti attraverso il lavoro. Ben diverso il quadro dipinto da Abate e Dart: stipendi simbolici di 25 cent l’ora, in violazione della dignità della persona e delle regole del mercato del lavoro, per lavori poco qualificanti che non hanno nessuna spendibilità all’esterno.

«Nelle parole dei nostri ospiti di Chicago», commenta Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, «si rivela la verità di quanto dice sempre papa Francesco quando parla di condizioni inumane di vita, di cancro dello sfruttamento umano e lavorativo e di veleno dell’illegalità. E purtroppo gli Stati Uniti sono l’ennesima conferma di un triste fenomeno che accomuna le carceri di tutti i paesi, indipendentemente dal grado di sviluppo economico. In tutto il mondo, con pochissime eccezioni, il carcere è pensato come strumento solo punitivo rivelandosi una fabbrica di delinquenza. Mentre la possibilità di un lavoro vero, come documentano le esperienze italiane, brasiliane, ma anche del Nord Europa, abbatte ovunque la recidiva ed è l’unico strumento in grado di reinserire davvero le persone».

Nella speranza che nel nostro Paese, nel quale ci sono tanti esempi positivi nati per iniziativa di decine di cooperative sociali e aziende, non si decida di fare marcia indietro, tornando a un’idea di lavoro che non appartiene alla nostra cultura giuridica, magari con la scusa di prendere esempio da paesi come gli Usa. Paesi che in realtà stanno iniziando una drammatica autocritica sugli errori commessi. E paradossalmente cominciano a guardare con interesse proprio al modello italiano.